CAMBRIDGE ANALYTICA: LUCI E OMBRE SUI DATI UTILIZZATI
Dalle presidenziali USA del 2016 fino alla Brexit: quanto oltre si sono spinti?
È stata una delle notizie che ha scosso maggiormente l’opinione pubblica internazionale questa primavera: parliamo di Cambridge Analytica e delle sue interferenze nella politica internazionale
Facciamo un passo indietro
Sono i primi giorni di marzo quando Guardian e New York Times hanno pubblicato svariati articoli dimostranti quanto l’azienda britannica avesse attinto a piene mani da dati sensibili provenienti dall’ecosistema di Facebook. Il tenore della vicenda assume sin da subito contorni interessanti tanto per la portata (si parla di centinaia di migliaia di dati), sia per le relazioni che Cambridge Analytica ha avuto con l’entourage di Donald Trump.
Chi è Cambidge Analytica
Fondata nel 2013 da Robert Mercer – un miliardario noto per le sue posizioni ultraconservatrici -, l’azienda è specializzata nella raccolta dei dati provenienti dai social network e sulla loro analisi. Parliamo di dati relativi a interazioni, interessi, luoghi e così via, dati che vengono poi elaborati per giungere a delle personas, cioè a dei profili psicometrici degli utenti.
Oltre a questi profili Cambridge Analytica ha poi integrato il proprio database con informazioni acquisite parallelamente, tramite società di auditing (uso delle fidelity card, abitudini di acquisto online etc). Parliamo di miliardi di briciole, spesso anonime o in forma aggregata, che abbinate ai profili visti poco sopra aggiungono un dettaglio di granularità davvero notevole.
Fino a qui affascinante, ma non disarmante.
E Facebook?
Nel 2014 nasce thisisyourdigitallife per mano del ricercatore Aleksandr Kogan: una app che assicurava di sviluppare profili psicologici e comportamentali basandosi sulla propria attività online. Utilizzarla era semplice: bastava collegarsi con il FB login e la app faceva il resto. Il tutto era gratuito, sì, ma come spesso accade il servizio era pagato con i dati: la app infatti otteneva -in modo trasparente – l’accesso a tutte le informazioni del profilo personale e dei propri amici.
La app fu un successo: circa 270mila utenti la utilizzarono fino a quando, tempo dopo, Facebook ritenne che la pratica fosse troppo invasiva della privacy, così limitò la profondità alla sola dimensione personale.
La app fece però in tempo a scandagliare circa 50milioni di utenti, cosa che permise a Kogan di aggregare una quantità impressionante di dati: dove vivono gli utenti, i loro interessi, i check in effettuati, i like…
Il problema
Nonostante il dietro front di Facebook, quanto aveva fatto Kogan era comunque ancora legittimo (ogni utente aveva accettato liberamente le condizioni d’uso!). Il problema nacque quando Kogan condivise i dati con Cambridge Analytica, di fatto violando le condizioni d’uso di Facebook che vietano agli sviluppatori di condividere i dati raccolti con le loro app.
E la politica?
Durante le ultime presidenziali U.S.A., il comitato di Trump affidò a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale. Non è chiaro quanto l’azienda abbia collaborato, in quale misura e con quali strumenti, ma quanto l’attività online portata avanti dal comitato sia stata impegnativa è stato sotto gli occhi di tutti: ricordiamo – uno su tutti – gli account fake, gestiti da bot, usati per condividere post e fake news contro la candidata Clinton, spesso in tempo reale durante i dibattiti televisivi.
Cosa impariamo da questo?
In tutta la vicenda ci sono moltissimi aspetti da indagare e, soprattutto, da analizzare alla luce degli ultimi eventi socio-politici. La sensazione è che si sia scoperchiato un vaso di pandora del quale non si vede però il fondo né del tutto il suo contenuto. Sicuramente l’accadimento ha contribuito a portare sul tavolo un sempre più acceso dibattito sulle fake news, sulla propaganda e sulla facilità di manipolazione dell’opinione pubblica dimostrando quanto Facebook abbia ad oggi un grosso problema nella gestione dei dati dei propri utenti.